ENRICO CIANCARINI

CIVITAVECCHIA – Chiariamolo subito: stiamo parlando del carciofo romanesco come deliberato nella Proposta di riconoscimento della indicazione geografica protetta “Carciofo romanesco del Lazio” IGP pubblicata sulla G.U. del 30 novembre 2000 in cui all’articolo 3 si limita la zona di produzione a tre provincie: Viterbo, Roma e Latina. Civitavecchia è compresa nell’elenco dei comuni produttori.

Nell’articolo successivo della Proposta si afferma che “il carciofo nella campagne laziali è conosciuto sin da epoca romana, probabilmente già gli etruschi raccoglievano questo prodotto”.

Nel volume Il mondo in un carrello (2022) l’autore Antonio Canu afferma che “la grande presenza di cardi selvatici nella fascia collinare tra Civitavecchia e Cerveteri, area di importanti insediamenti di questo popolo, farebbe propendere per questa ipotesi”.

Pietro Manzi, giurista, storico e appassionato archeologo, avrebbe concordato con questa teoria che propone gli etruschi primi coltivatori del carciofo nelle nostre zone. Nel 1837 nel suo Stato antico ed attuale del porto, città e provincia di Civitavecchia scriveva: “Taluni proprietari, i quali coltivano il carciofo, che per la dolcezza maggiore del clima si matura un buon mese prima di quello di Roma, ne ritraggono un non spregevole profitto. I frutti, gli erbaggi, tutto vi matura egualmente prima di Roma, e l’aere marino li condisce di una inaggiungibile squisitezza”.

Nel Catasto agrario del 1929, nel Comune di Civitavecchia (che all’epoca comprendeva le frazioni di Santa Marinella e di Ladispoli), gli ettari coltivati a carciofi erano 53 con una produzione media per ettaro di 54 quintali, che sprigionava una produzione complessiva di circa tremila quintali. In Storie di cucina (2019), Bepi Marzulli esalta il nostro carciofo cucinato alla “giudia”: “Parliamo del carciofo romanesco, detto anche mammola, mamma o cimarolo, che si vanta anche del marchio IGP e che si coltiva prevalentemente nella zona dell’Agro romano compresa tra Ladispoli e Civitavecchia: clima mite, terreni profondi, sabbiosi e soffici. Ha una forma inconfondibile, quasi sferica, compatta e senza spine. Il suo trionfo è a primavera e la sua versione “alla giudia” torna a onore e vanto della cucina romana ebraica”.

Anche nella cucina civitavecchiese, come registra Carlo De Paolis nel suo Breviario, il carciofo (o alla civitavecchiese il carciofolo) la fa da padrone: nel pranzo tradizionale di Natale, “grasso”, non poteva mancare il fritto di carciofi con la cotoletta.

Nella colazione di Pasqua regna la coratella con i carciofi. Continuando a sfogliare, troviamo la scafata, i carciofi alla romana e quelli alla giudia (Carlo afferma che a Civitavecchia le due ricette sono al contrario di quelle romane!), il fritto di terra a base di misto di verdure e di misto di cervello e animelle. Il carciofo lo troviamo anche nel cazzimperio che, per chi non è romano, in italiano si traduce pinzimonio.

In conclusione, possiamo affermare che da secoli il carciofo la fa da padrone sulle nostre tavole.

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