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di ENRICO CIANCARINI
Le pagine che seguono avrei voluto inserirle nel mio libro La Marchesa e le zitelle. Donne nella Storia di Civitavecchia. Purtroppo, ho incontrato queste donne subito dopo la pubblicazione del volume nella ricerca dedicata alla storia e alla tradizione della zuppa di pesce. Protagoniste sono le donne che per decenni hanno cucinato nelle loro trattorie lo squisito piatto simbolo gastronomico per anni di Civitavecchia. Furono imprenditrici di sé stesse e hanno fatto conoscere Civitavecchia in Italia e all’estero grazie alla loro bravura nel cucinare e nella gestione delle loro aziende familiari, regine della tavola e protagoniste silenziose della storia sociale ed economica della nostra città.
Trattoria del Gobbo
Nel 1857 Candeloro Gargiulli, “caporale” della prima squadra dei facchini del porto, apriva al pubblico “una modesta osteria in un locale sito sotto le fondamenta di Campo Orsino, con accesso dalla cortina merlata di Clemente VIII (per la verità era Urbano VIII), fra l’antica Scaletta e la monumentale fontana del Mascherone. Il locale […] assunse il nome di “Osteria del Gobbo” perché in essa padron Candeloro aveva assunto un garzoncello gobbo”.
La storia della Trattoria del Gobbo è pubblicata su Immagini di Civitavecchia (1993) edito dall’Associazione Archeologica Centumcellae ed è firmato da “Lario” pseudonimo di Vittorio Lazzari.
Con l’inaugurazione della ferrovia Roma – Civitavecchia agli umili lavoratori del popolo “si aggiunsero numerosi villeggianti romani”. Erano attratti dalla freschezza del pesce.
“Morto padron Candeloro, la gestione del fortunato locale venne assunta dalla moglie, Caterina Paparcuri di Tolfa, donna energica ed attiva, con la quale collaborarono numerosi figli, tra cui Erminio …
Per tredici anni, dal 1900 al 1913, Erminio Gargiulli, subentrato alla madre, gestì il locale coadiuvato dalla giovane moglie Andreina Urbani. Questa, rimasta vedova con quattro figli a carico di età tra i due e gli undici anni, incrementò notevolmente il lavoro della Trattoria del Gobbo grazie soprattutto alla sua inimitabile zuppa di pesce, giudicata dai buongustai superiore a quella di tutti gli altri centri marittimi italiani ed esteri. Sembra che il segreto della cucina della Sora Lisa, oltre alla freschezza ed alla varietà del pesce, fosse rappresentato da un particolare accorgimento nella preparazione del brodo con pesce di piccola taglia, noto a Civitavecchia col nome di ‘mazzumuglia’ o ‘un soldo al piatto’, lo stesso cui le nostre nonne erano use preparare squisite zuppette di cui oggi, fatta eccezione forse per qualche vecchia famiglia di pescatori, si è perduto il ricordo”.
Trattoria Da Mimma
Sul Corriere della Sera del 15 novembre 1952, Raffaele Calzini firma un lungo articolo dal lungo titolo: “La famosa “zuppa del gobbo” chiama romani a Civitavecchia. Cinque osterie si contendono il vanto di possedere la leggendaria ricetta che emula i più squisiti modelli del “cacciucco”, della “bouillabaisse” e del “brodetto”.
Della Trattoria del Gobbo l’articolo non parla ma parla della “zuppa del Gobbo”: Civitavecchia “è meta di pellegrinaggi gastronomici perché è noto che la zuppa di pesce cucinata nelle sue trattorie è tra le migliori d’Italia e certo la più gustosa che si possa trovare poco lontano da Roma. Pare che l’iniziatore di questa fama fosse un non meglio definito pescatore-cuoco, abitante vicino al porto, che nella tradizione popolare passa per il “gobbo”; e a lui e alla sua ricetta fanno capo, almeno apparentemente, quanti a Civitavecchia si vantano di sapere cucinare la più prelibata zuppa di pesce che dai tempi del goloso Domiziano sia comparsa sulla tavola di un quirite.
Che questo “gobbo” fosse poi ispirato dal diavolo per indurre al peccato della ghiottoneria nei giorni di magro anche i più osservanti cristiani e i più severi prelati è tema che meriterebbe una illustrazione particolare. Si racconta di certi cardinali che, recandosi per il Conclave a Roma, fecero tappa dal “gobbo” prima di chiudersi in Vaticano a eleggere il nuovo Papa; […]
Nessuna delle trattorie di Civitavecchia porta nell’insegna un blasone così illustre: la scelta del ghiottone che si arresta a Civitavecchia o vi si reca appositamente da Roma, da Grosseto, da Viterbo, oscilla per lo più tra cinque osterie famose: “L’Ideale” fuori città sulla via Aurelia, “Il Tarquiniese”, “Esterina”, “La Moretta”, così denominata dalla proprietaria, una piccola pepata donnina bruna che mobilita intorno alla zuppa di pesce tutti i figlioli maschi e femmine, e la “Sora Mimma”.
Questa ultima ostessa è certo una delle più efficienti e importanti glorie gastronomiche di Civitavecchia e già si impone con la figura monumentale e i cento chili di peso che muove intorno ai fornelli e rosola alle vampe dello spiedo con la disinvoltura di una regina. Al secolo si chiama Mimma Unali e passò l’infanzia e la giovinezza a scaricar pesci dalle barche rientranti, e portarli sul capo nelle ceste per le vie della città.
Nell’eco di qualche portone, di qualche portico, di qualche feritoia risparmiati dai bombardamenti rimane la voce dell’aitante pesciaiola ridente e dritta come quella dipinta da Hogarth; ma le nuove generazioni l’hanno sempre vista ai fornelli o ai tavoli della sua trattoria e in quell’appellativo di “Sora Mimma” è confidenzialmente sottinteso un senso di rispetto e d’omaggio a una celebrità gastronomica locale che fu anche consacrata anni sono da un premio. Valeva la pena perciò di riuscire a trarre dal segreto della sua cassaforte mentale (le casseforti delle donne si scassinano sempre più facilmente di quelle degli uomini) la ricetta o il “Leitmotiv” della zuppa di pesce che ella proclama “alla romana”.
La Sora Mimma non ignora che esistono due scuole, una che nella cucinatura dà la preferenza al sapore dei pesci, e l’altra che condensa il sapore nel brodo in cui vengono cotti. È la differenza teorica che separa la scuola del “cacciucco” da quella della “bouillabaisse”: e poiché la scuola di Civitavecchia è più vicina a quella di Livorno si conserva ai diversi pesci tutto il loro variato sapore in modo che dal palato allo stomaco e da questo al cervello il buongustaio possa passare in rassegna, come nella profondità di una pesca subacquea, gli scorfani o i rospi, i gronchi o le aragoste, i gamberi reali o le triglie, gli sgombri o i palombi, e così via via secondo la varietà che dipende più dalla fortuna dei pescatori che dall’abilità dei cuochi.
Questo corteo è preceduto in casseruola dai polipi e dalle seppie che, una volta arrotolati, sono raggiunti da pomodori a pezzi. A parte vengon soffritti qualche spicchio d’aglio, un po’ di prezzemolo e un peperoncino rosso, e la mescolanza di tutti questi elementi viene riunita in una sola casseruola nella quale l’acqua viene aggiunta poco alla volta a freddo mentre, è bene notare, i dogmi di Marsiglia vogliono che l’acqua sia aggiunta calda. Per distinguere e caratterizzare la semplicità saporosa del suo intingolo la Sora Mimma non vi aggiunge vino come i livornesi né burro come i marsigliesi”.
Trattoria La Moretta – Villa dei Principi
La mia famiglia era di casa a Villa dei Principi, qui a fianco di mia moglie Cristina ho accolto gli invitati al nostro matrimonio. Per mio padre Patrizio Villa dei Principi era la casa dove era nata il 20 luglio 1930 Elettra, la figlia di Guglielmo Marconi. E il 26 gennaio 1986 la riportò lì.
Nel precedente articolo abbiamo incontrato la Moretta “una piccola pepata donnina bruna che mobilita intorno alla zuppa di pesce tutti i figlioli maschi e femmine”. Il suo vero nome era Annunziata Guglielmi, nata nel 1905, coniugata con il portuale Alfredo Gasparri con cui ebbe cinque figli tutti nati entro il 1928 (ringrazio Bruno Pantaleone, suo nipote e caro amico, per le notizie e le foto).
La ricordiamo con un articolo apparso su Il Tempo di Roma nel 1985 firmato da Paolo Brunori:
“Per anni, finita la guerra e con l’auto che piano piano entrava in tutte le famiglie, andare dalla Moretta era stato per i romani, e non solo per loro, sinonimo di togliersi lo sfizio del pesce fresco e l’occasione di una bella gita al mare. L’autostrada era ancora lontana e l’Aurelia non era intasata più di tanto: cosa di meglio per passare una bella domenica e, magari riportare a casa una cassetta di sardine vive? Ma gli anni continuarono ad inseguirsi sempre più in fretta, le auto a crescere, le strade ad ingolfarsi e lentamente anche il nome benemerito, inteso col significato di un tempo, pian piano scomparve in tanto bailamme, restando nel cuore dei più e vicino solo a pochi intimi. Il rimpianto di un ricordo che fu.
Finchè qualche giorno fa, una concomitanza di ritardi, non condusse un gruppo di ghiottoni di Borgo Odescalchi 11/A, proprio a Civitavecchia, in una splendida villetta a un passo dal mare – la Villa dei Principi – voluta da Baldassarre Odescalchi, dice un depliant, sulla fine del secolo scorso ‘nella pace di un angolo quasi remoto, che riceve l’ultimo bacio del sole morente’. Un attimo, due saluti e il miracolo inatteso: la Moretta non era più una foto ingiallita dal tempo, ma una presenza concreta, viva e moderna. Realtà e non ricordo: provare per credere, cominciando dalla proverbiale zuppa di pesce e dall’altrettanto famosa zuppa di crostacei che non ha eguali sulla costa maremmana, ma non dimenticando gli splendidi antipasti di mare accompagnati da una tavolozza di salse diverse tra le quali è difficile scegliere la migliore. Senza soffermarsi sulla freschezza, la fragranza e il gusto tutto particolare del pesce che la Moretta sa presentare e preparare con antica, superiore esperienza”.
Le operaie della “Fabbrica del baccalà”.
Negli anni Trenta del secolo scorso, Civitavecchia ospitava una flotta peschereccia oceanica che rendeva il suo porto il più importante d’Italia. Al ritorno di questi piropescherecci, il pesce pescato nell’Oceano Atlantico era lavorato dalla Società Italiana Pesce Oceanico Conservato SIPOC che aveva sede nella celeberrima “Fabbrica del Baccalà”, sita nella Darsena romana.
Fra i prodotti che uscivano da questa fabbrica c’era anche il “Cacciucco” o zuppa di pesce in scatola. Un articolo del Corriere della Sera del 28 giugno 1930 intitolato “Metamorfosi moderne. L’industria della pesca oceanica” illustra quali operazioni venissero effettuate nell’opificio civitavecchiese e il ruolo da protagoniste che avevano le operaie addette all’inscatolamento delle confezioni “contenenti il cacciucco, il super dentice, il dentice, il tonno e simili ghiottonerie”.
“La macchina del cacciucco
Nella darsena v’è un bacino di carenaggio ben attrezzato e, sulla calata, sorgono due moderni stabilimenti dell’industria peschereccia, che danno lavoro a un notevole numero di operai.
Nessuno pensi a semplici fabbricati, pieni di reti, di corbelli e di banchi. Si tratta d’impianti di una certa importanza, di un lavoro rapido ed esatto. Si assiste a una bella metamorfosi: da una parte entrano pesci; dall’altra escono scatole rotonde con tanto di etichetta litografata, piene di cacciucco o zuppa di pesce, che dir si voglia.
Non si sciupa un grammo del carico: anche quello che non può allietare la mensa viene utilizzato: con le spine si fa un alimento molto profittevole al bestiame; con le squame un fertilizzante. Parte dei due prodotti viene venduta nei mercati interni e parte assorbita dai mercati tedeschi.
Una grue porta il pesce dal vapore in un vasto locale, in cui si trova un banco di ferro, girevole, a due piani. Sul piano superiore si mette il pesce che sarà venduto fresco; sull’inferiore quello che sarà preparato in scatola. Il primo, naturalmente, dopo una breve sosta nella cella frigorifera, va a fare da mirabile natura morta – si tratta di grandi peci, da taglio, – nelle quotidiane esposizioni dei mercati e dei negozi; l’altro, trasportato nello stabilimento, diventa oggetto di molteplici operazioni.
Viene pesato, decapitato, sbuzzato, nettato, scottato, gli si tolgono le squame, lo si fa a pezzi, lo si pone in bacinelle di cottura di nichel puro. Quando è cotto a puntino comincia – la parola è assai brutta, ma come fare? – l’inscatolazione, la quale vien fatta da operaie, che sono coadiuvate efficacemente da macchine, e che dimostrano in maniera brillante come la donna, anche quando è adorna di conserva di pomodoro e di squame di pesce, invece che di gioielli, sia sempre donna, cioè conservi intatta la facoltà di scoccare occhiate che con la navigazione, l’industria e il commercio non hanno nulla in comune”.
E allora buon appetito degustando un’ottima zuppa di pesce civitavecchiese cucinata dalle valide ed esperte chef che oggi vanta la nostra città, degne eredi della grande tradizione gastronomica civitavecchiese di cui abbiamo ricordato le principali protagoniste.