di ENRICO CIANCARINI*

CIVITAVECCHIA – Recentemente mi è stata chiesta la data di nascita della pizza di Pasqua, una delle specialità gastronomiche cittadine più amate da noi Civitavecchiesi, ingrediente insostituibile quando si imbandisce la tavola dell’identità della nostra Comunità, la cosiddetta “civitavecchiesità”. Lo ricordano i bellissimi versi di Igino Alunni, che ho citato nel titolo di questo breve saggio, che però non aiutano a dipanare il mistero delle sue origini.

La domanda a cui non sono stato in grado di rispondere ha fatto germogliare nella mia testa quella sana insoddisfazione che, unita alla cocciutaggine e soprattutto all’innata curiosità che albergano perennemente in essa, mi ha spinto ad immergermi nella ricerca e a formulare un’ipotesi sulla genesi del nostro dolce pasquale.

Scandagliando internet ho scovato in alcune pubblicazioni ottocentesche qualche notizia che attesta la conoscenza e la diffusione goduta dalla nostra specialità nei secoli scorsi.

La prima è del 1872, nei primi anni postunitari. Il romano La Frusta, giornale politico morale pubblicava nel numero del 31 marzo 1872 un sonetto in dialetto romano in cui Civitavecchia e la sua pizza erano citate due volte:

La mejo pizza.

Ogni paese fa ‘na cosa rara:

Li mejo ciammelloni so d’Arbano;

Er mejo porto è quello de Ferrara,

Com’er primo carciofolo è er romano.

Pe le pizze gnissuno po fa a gara

Cor Civitavecchiese più marrano;

Ma puro Roma adesso se prepara

A daje un scaccomatto piano piano.

Qua so colati tutti, brutti, belli

Un sacco de mijara de persone,

pezzi grossi, menuti e mezzanelli.

Un fornaro co tanto de…. Occhialoni

Sai che pizza po fa co sti fringuelli?

Civitavecchia se po annà a ripone!

Versi che rivelano il primato riconosciuto della pizza civitavecchiese sulle tavole di Roma ma anche i tentativi in corso dei fornai romani di dare “scaccomatto” commerciale ai colleghi rivali della cittadina portuale.

Pochi anni dopo, era la Rivista minima di scienze, lettere ed arti pubblicata a Milano nel 1879, a pubblicare il lungo elenco dei dolci tipici più apprezzati sulle tavole degli Italiani. Partendo per un virtuale e dolce giro d’Italia, abbiamo il “proverbiale panettone” milanese, per citare subito dopo i maritozzi di Roma, i cioccolatini di Torino, i panforti e i ricciarelli di Siena, i torroni di Cremona, la cassata palermitana e i mostaccioli di Napoli, ecc., ecc. Fra tutti questi dolci natalizi e pasquali, ancora oggi patrimonio gastronomico dell’Italia, l’autore Michele Castellini citava la pizza di Civitavecchia.

Un po’ di confusione la provoca la lettura dell’Illustrazione italiana che nel numero del 7 gennaio 1883 pubblicava l’articolo Il Natale in Roma a firma di Don Pirlone in cui si descrive la cena di vigilia dei romani che iniziava “d’ordinario con gli spaghetti, intrugliati di noci e mandorle e acciughe trite e ritrite” per chiudere “con la PIZZA di CIVITAVECCHIA, una delle infinite varietà del tipo panettone”.

Lo scrittore francese Felix Grimaldi, autore del volume Roma après 1870, pubblicato nel 1887, scriveva: “La quantité de denrées (solides ou liquides) que consomme annuellement un habitant de Roma est de 435 Kilogrammes, représentant quatre fois le poid moyen de son corps. A Noel, tout bon romain mangera un gateau indigeste nommé PANGIALLO et dur comme la brique; à Pàques, au contraire, il aura sur sa table une PIZZA de CIVITAVECCHIA. Ce genre de patisseries a donné son noma u pain d’epice (di PIZZE) si connu en France”.

Insomma, la pizza di Pasqua civitavecchiese era un dolce particolarmente apprezzato e ben conosciuto già nell’Ottocento soprattutto a Roma. Un’ulteriore reminiscenza la regala Manfredi Porena, illustre storico della Letteratura italiana e noto dantista, che nacque a Roma nel 1873 e vi morì nel 1955. Due anni dopo la sua morte, fu edito postumo il volume autobiografico Roma capitale nel decennio della sua adolescenza, in cui ricordava che a Roma negli ultimi decenni dell’Ottocento “per Pasqua si faceva la pizza dolce, cioè una semplice torta di farina, uovo e zucchero, ben lievitata, ricoperta d’uno strato zuccherino come quello dei pangialli eleganti; ma era diffuso anche l’uso della eccellente PIZZA di CIVITAVECCHIA, più rozza, meno dolce, senza coperta zuccherina, ma d’un sapore sui generis gustosissimo, dato da cannella ed essenza di arancio”.

Dopo tutti questi attestati di bontà, arrivò la consacrazione ufficiale del primato nazionale del dolce civitavecchiese da parte dello Stato italiano, che lo certifica con la Circolare n. 1-152, in data 11 gennaio 1909, indirizzata ai signori Sindaci dei Comuni capoluogo dei mandamenti amministrativi del Regno pubblicata sul Bollettino del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio:

“Non pochi tra i più pregiati e notevoli prodotti nazionali potrebbero dare alimento a più attive correnti di esportazione, se intorno ad essi si avessero maggiori e più esatte notizie.

Per avere queste notizie mi rivolgo alla S.V. e la prego di volermi far conoscere quali siano le più notevoli specialità che si producono in codesto Comune e negli altri del Mandamento amministrativo rispondendo al questionario unito.

La S.V. potrà accompagnare la risposta con tutti quei dati e notizie che valgano a mettere in evidenza i pregi della specialità che si vuole far conoscere … Firmato Il Ministro F. Cocco-Ortu”

Allegata alla circolare un modulo da compilare da parte dei Comuni che in calce riporta una

“Nota esplicativa: Per specialità si intende un prodotto che si può ritenere come fabbricato per lo più in un solo comune, come ad esempio: i biscotti di Novara, la mostarda di Cremona, i baicoli di Venezia, il panforte di Siena, la PIZZA di CIVITAVECCHIA, l’anisone di Brescia, i cappelletti di Bologna, la pastina di Napoli, le cotognate di Lecce, i fichi ripieni di Cosenza, i cannoli di Palermo, gli amaretti di Oristano, ecc.”.

Le testimonianze che abbiamo riportato concordano su quanto la pizza di Pasqua civitavecchiese fosse gradita fra Ottocento e primo Novecento tanto da essere annoverata fra i più conosciuti dolci tradizionali della Penisola. Un primato che purtroppo negli anni non si è saputo difendere.

Di conseguenza, se la pizza pasquale si era così affermata sul mercato capitolino tanto da spingere i fornai romani ad imitarla, ciò dimostra che esistevano a Civitavecchia forni capaci di una produzione di buon livello che permetteva una diffusa commercializzazione del tipico prodotto ad appannaggio delle tavole pasquali dei romani. Allo stato attuale delle ricerche, non è possibile quantificare le dimensioni raggiunte da questo dolce commercio, che senza dubbio, avrà goduto dell’apertura nel 1859 della linea ferrovia fra le due città.

Se nel XIX secolo e nei primi decenni del successivo, la pizza di Pasqua civitavecchiese registrava un così alto gradimento, tanto da essere attestata come assidua presenza sulle tavole dei romani ed inserita nel catalogo dei dolci italiani più noti, dobbiamo presumere che le sue origini affondino addirittura nel XVI o XVII secolo.

Notizie certe le abbiamo per il Settecento. In quel secolo a Civitavecchia non scarseggiavano le materie prime alimentari. Lo scalo cittadino forniva a Roma buona parte del grano necessario ai suoi consumi, i bastimenti che giungevano in darsena da paesi europei o extraeuropei, trasportavano spezie e generi coloniali d’ogni genere utilizzati anche nella produzione dolciaria.

Lo conferma Odoardo Toti, che dieci anni fa pubblicava il volume Clemente XIII a Civitavecchia nell’anno 1762. Un manoscritto inedito di Pietro Arata nobile civitavecchiese. Vi riporta l’elenco dei regali che il pontefice ricevette durante la sua visita a Civitavecchia. Spilucchiamo qua e là: un bacile di Butiro (burro), altro di Cedrati, un bacile di canditi, due detti di zucchero d’Olanda, trenta libre cioccolata con vaniglia, trenta libre caffè di Levante, un bacile di caffè, uno detto di cioccolata, uno detto di pistacchi, vini di ogni genere.

Le materie prime venivano scaricate nello scalo cittadino e se buona parte di esse prendeva la strada di Roma o di altre località dello Stato pontificio, una certa quantità era intercettata dai commercianti di Civitavecchia, che le lavoravano producendo così il dolce tanto apprezzato dai romani. Non conosciamo i nomi di questi fornai che in un futuro non lontano potranno essere riconosciuti da un’attenta ricerca negli archivi cittadini e capitolini.

Basiamo la nostra ipotesi sulle origini della pizza di Pasqua civitavecchiese su sicuri dati storici, rivolgendo la nostra attenzione a quanto scritto da uno dei maggiori storici di Civitavecchia: padre Alberto Guglielmotti nella sua Storia della marina pontificia.

Nel settimo volume (1882, pp. 207-214), padre Alberto riporta il chirografo che affida al capitano Francesco Centurioni l’assento della flotta pontificia. All’articolo 26 si parla del rancio da somministrare agli equipaggi della flotta pontificia e “si conviene che tutta la roba che si dispensa da mangiare, pane, vino, biscotto, carne fresca e salata, tonnina e sarda siano buone; et il pane e biscotto sia della qualità che oggi fa Mario Fani”. Nella nota il domenicano aggiunge “Mario Fani: antenato dei conti Fani di Viterbo, appaltatore lodato dei forni in Civitavecchia, cui successe Francesco della stessa famiglia”.

Il nostro Mario Fani (omonimo e lontano avo di colui a cui è intestata la via che fu assurta nel 1978 alla storia nazionale per le tragiche vicende che vi accaddero) originario di Tuscania, era nato nel 1530 circa e morì nel 1603, fu imprenditore agricolo, mercante e banchiere. Lo storico viterbese Antonio Quattranni attesta che la Tuscia fu un’area “di forte produzione cerealicola costituita dai territori intorno ai centri di Tuscania, Tarquinia e Montalto di Castro. Comprese in gran parte in questo territorio, che potremmo definire ‘triangolo del grano’, si trovano, alla seconda metà del ‘500, anche le principali proprietà fondiarie dei Fani, una famiglia della ‘borghesia agraria’ che già verso la fine del ‘400, periodo in cui si nobilita, è tra le più importanti di Tuscania”(Il Liber Instrumentorum Grani di Girolamo Fani di Tuscania in Biblioteca e Società,volume XXVI, n.2, giugno 1994, Viterbo).

Fani produceva il grano e gestiva l’appalto dei forni di Civitavecchia che fornivano principalmente il pane e il biscotto alla flotta pontificia. Erano i forni che descrive, oltre un secolo dopo, il domenicano francese padre Labat.

“Quando dico i forni della Città, non bisogna immaginarsi che questo sia un forno banale, dove tutti siano obbligati ad andare a cuocere il loro pane. In questo paese quel diritto [feudale] è del tutto sconosciuto … Tutti hanno diritto d’avere dei forni … però non è permesso a tutti di vendere del pane. Questo è un diritto che forma una parte delle entrate della Città. Non c’è che un unico Fornaio che fa tutto il pane che si distribuisce nella Città … L’edificio dove sono i forni è grande e tra i più comodi. Vi sono dodici forni tutti in fila in una lunga stanza a volta, che si trova al pianterreno, le madie sono dietro i forni e gli abburattatoi al di sopra … Riguardo al pane per i Borghesi, la sua qualità e il suo peso sono determinati dal Governatore Prelato e dal Senato della Città … Il pane è bianchissimo, ben fatto, ce n’è tutti i giorni di fresco e anche più volte al giorno; e siccome è proprio a buon mercato, nessuno usa assolutamente altro pane” (F, Correnti e G. Insolera, I viaggi di padre Labat dalle Antille a Civitavecchia, 1995, pp. 111-112).

I forni di cui parla il frate francese erano situati a Piazza Leandra, furono poi sostituiti dai forni camerali eretti da Pio VI nel 1780, come ricordato dalla lapide ancora oggi esistente in via Granari posta su l’edificio che i Civitavecchiesi chiamano “Carcerette”, mutuato dal successivo uso che si fece di quella costruzione.

La “qualità che oggi fa Mario Fani” sono l’indiscutibile testimonianza, confermata a distanza di un secolo da “il pane è bianchissimo, ben fatto”, di una solida e sapiente arte della lavorazione del pane che, dalla certezza storica passiamo all’ipotesi, poteva estendersi anche alla produzione di dolci semplici e tradizionali da consumare nelle feste comandate.

Mario Fani era uomo della Tuscia, la sua ricchezza nasceva dal grano e dalla sua lavorazione. Nei suoi forni civitavecchiesi poteva impiegare manovalanza d’origine viterbese o di altri luoghi della Tuscia. Oltre al segreto del buon pane, questi “fornari” possono aver trasmesso ai Civitavecchiesi (e soprattutto alle donne civitavecchiesi) la tradizione della pizza dolce pasquale che le fonti storiche di Viterbo assicurano di antichissima origine.

Qualche giorno fa, la goliardica Confraternita dell’antica zuppa di pesce civitavecchiese e delle tradizioni gastronomiche cittadine ha organizzato un assaggio/confronto fra la pizza di Pasqua di Bagnaia (località vicino Viterbo) e quella di Civitavecchia. Entrambe buonissime, molto simili nella loro diversità. Alcuni ingredienti li hanno in comune, altri sono propri: la buccia d’arancia grattugiata, l’anice, la cannella, il liquore, donano ad ognuna il loro sapore tipico. Una più leggera, l’altra più dolce, entrambe ottime con salumi e cioccolata. In quella civitavecchiese è presente la ricotta di pecora, ulteriore testimonianza gastronomica del solido legame che esisteva fra il nostro porto e le greggi umbre e marchigiane che venivano a svernare nella maremma laziale, fra Montalto e Santa Marinella.

Tradizionalmente la pizza di Pasqua è un prodotto originario dell’Italia centrale e soprattutto è più conosciuta nella versione salata, insaporita dal formaggio, famosa è quella realizzata a Terni.

Civitavecchia nei secoli è stata oggetto di una continua transumanza di uomini e donne dall’Umbria e dalle Marche che raggiungevano la costa per trovare lavoro e pane nei grandi latifondi o erano addetti alla sterminata transumanza delle greggi (a tal proposito consiglio la lettura di Poveri in cammino. Mobilità e assistenza tra Umbria e Roma in età moderna, a cura di Alberto Monticone, 1993).

Civitavecchia subì e beneficiò di continue e secolari migrazioni che coinvolsero migliaia di persone che custodivano nella testa e nel cuore le usanze, la memoria culturale e spirituale ma anche le tradizioni gastronomiche dei territori d’origine. Nella nostra Città fu inevitabile che le diverse espressioni regionali si mescolassero e si amalgamassero, anche tramite i numerosi matrimoni fra forestieri e locali. Nacque così un impasto di culture e tradizioni da cui, sempre ipotizzo, trasse origine la nostra pizza di Pasqua dolce che sì ricorda le specialità similari della Tuscia, dell’Umbria e delle Marche ma che rivendica orgogliosamente la sua squisita originalità.

Alla fine di questa ricerca non abbiamo saputo individuare con certezza la data di nascita del nostro dolce pasquale. Abbiamo citato alcune fonti storiche che abbiamo asservito alla nostra personale e semplice ipotesi sulle sue origini, senza alcuna prova certa.

Massimo Borghetti, delegato onorario dell’Accademia italiana della Cucina, dedica alla pizza di Pasqua civitavecchiese un magistrale articolo pubblicato sul numero di aprile 2022 della Civiltà della Tavola, organo di quel illustre sodalizio, in cui conferma che:

“Non esistono notizie storiche certe sulla sua origine. La testimonianza più importante viene dai quadernetti delle ricette, gelosamente custoditi dalle famiglie, che riportano molte varianti legate soprattutto all’uso dei liquori impiegati”.

L’unica certezza che da secoli abbiamo noi Civitavecchiesi è la bontà della nostra pizza di Pasqua.

Auguri di buona Pasqua di Resurrezione.

*presidente Società Storica Civitavecchiese