Quando nacque in un Teatro di Bologna, settantacinque anni fa, si chiamava Unione Italiana Sport Popolare. E popolare sarebbe rimasta per mezzo secolo, in omaggio al lessico del tempo. Quell’idea di sport, del resto, popolare lo era davvero perché intercettava una domanda sociale diffusa – di salute, di svago, di socialità – ma intendeva affrancarla dall’uso che ne aveva fatto il fascismo. Il regime aveva fatto dei successi agonistici un veicolo di propaganda nazionalistica e della pratica di base uno strumento di controllo sociale, soprattutto dei giovani. La stessa Unione sovietica, del resto, aveva fatto della pratica di massa un caposaldo della pedagogia socialista. Coerentemente con una visione “autenticamente rivoluzionaria e anti-borghese”, in una prima fase furono osteggiate le derive competitive. Durò poco. Già a Helsinki 1952 l’Armata rossa dello sport fece incetta di medaglie classificandosi al secondo posto assoluto nella graduatoria per nazioni. Nel 1948 matura anche in Italia, spesso per iniziativa dei partiti di massa che si andavano ricostituendo, l’idea di dare vita un’esperienza di sport sociale che, senza demonizzare la competizione e il risultato tecnico, valorizzasse soprattutto la vocazione pedagogica e la socialità della pratica rendendola accessibile davvero a tutti. Questa combinazione di nobili intenti e di appartenenze ideologiche – eravamo negli anni della Guerra fredda – avrebbe gemmato una costellazione di esperienze inedite. Il fronte cattolico aveva il suo sindacato (la Cisl), il suo partito (la Dc), le sue organizzazioni di riferimento come le Acli. Le sinistre avevano la Cgil, il Pci e il Psi, l’Arci e le varie organizzazioni di settore. Lo sport si adeguò: negli stessi anni in cui prende forma la Uisp “popolare” nasce, con il sostegno delle parrocchie, il Centro sportivo italiano. Nella stagione del collateralismo la Uisp sarà però la meno “allineata” delle sorelline della sinistra e la più pronta a navigare in mare aperto. A dirigerla vengono chiamati giornalisti, ex atleti, tecnici dello sport. Raramente sono i burocrati di partito a occupare i vertici. L’associazione sarà all’avanguardia nel promuovere lo sport femminile battendosi contro pregiudizi ancora diffusi. Sperimenterà la pratica per gli anziani e per la prima infanzia, l’intervento nelle aree sociali degradate, negli istituti di pena. Darà impulso alle attività non competitive open air. Già negli anni Cinquanta raggiungerà centinaia di miglia di iscritti, in tutte le aree del Paese. Un itinerario coronato nel 1998, a mezzo secolo esatto dalla fondazione, da un traguardo storico: un milione di soci. Il movimento è robusto ma è il vecchio modello dello sport popolare a mostrare la corda. Già nei primi anni Novanta un presidente visionario, Gianmario Missaglia, ha fiutato il vento. La Uisp, emancipata dal collateralismo politico, esplora i territori inediti del nascente “sport di cittadinanza”. Matura, non sempre in maniera indolore, una transizione culturale. Lo sport di tutti e per tutti è attento alle emergenti tematiche del femminismo, dei diritti, delle nuove culture del corpo. Capita persino che si organizzino convegni sul postmaterialismo e i nuovi bisogni. La definizione di sport popolare si è fatta non solo obsoleta ma fuorviante. La Uisp diviene Unione Italiana Sport Per tutti: rimane l’acronimo ma cambia tutto il resto. Il rapporto con i due padri-padroni – il Coni e la sinistra politica -, è via via rinegoziato. La nuova Uisp guarda all’esperienza nord-europea dello sport for all & for everybody. Ma non si tratta di un’imitazione acritica: l’idea guida è quella di coniugare l’espansione demografica dei praticanti (la vera e propria “promozione sportiva”) con un’inedita offerta di sport “a misura di ciascuno”, non necessariamente orientato alla competizione. All’epoca ero in Italia l’unico titolare di una cattedra universitaria in Sociologia dello sport. Dal 1992 al 1998 avevo ricoperto la carica di presidente del comitato scientifico Uisp per divenire poi membro del Centre for Research into Sport and Society (Crss) dell'Università di Leicester (Gran Bretagna) e Presidente dell’Associazione europea dei sociologi dello sport (Eass). Mai avrei immaginato, però, di essere chiamato a guidare un’Associazione di massa che rappresentava all’epoca la terza o la quarta organizzazione nazionale per numero di soci. La mia candidatura, del resto, sarebbe maturata da un concorso di circostanze irripetibili. L’uscente Missaglia intendeva marcare una chiara discontinuità con la logica delle nomenklature interne, favorito in questo dall’assenza di un successore designato. In quanto presidente del comitato scientifico non avevo sostenitori ma nemmeno nemici. Nei confronti del Coni, il moloch del nostro sistema sportivo, apparivo “vergin di servo encomio e di codardo oltraggio”. Fu così che per sette anni (fui rieletto nel 2002) mi condannai a una vita d’inferno. Tenevo i corsi all’Università di Cassino ma ero anche membro del coordinamento nazionale del Forum del Terzo settore, del Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel) e dell’Accademia Olimpica nonché vicepresidente della Federazione Internazionale dello Sport Per Tutti (Fispt). La Uisp mi ha portato in tutti i continenti: ho più ore di volo di un pilota di linea… Riuscii a sopravvivere consolandomi da sociologo: pensai che stavo facendo “osservazione partecipante”. E non me ne sono pentito.

*Nicola Porro Presidente Uisp 1998-2007

Nicola Porro, il professore

Nicola Porro, presidente Uisp dal 1998 al 2007

Professore ordinario in sociologia in quiescenza, Nicola Porro ha insegnato in diverse università italiane e ha maturato esperienze di lavoro in numerosi altri Paesi. Ha pubblicato molti lavori soprattutto in materia di sociologia politica e di sociologia dello sport. È stato presidente nazionale della Uisp dal 1998 al 2007 e presidente dell’Associazione europea dei sociologi dello sport dal 2007 al 2009. È stato due anni membro del CNEL e cinque anni del direttivo nazionale del Forum del terzo settore.

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