CIVITAVECCHIA – Nel 1817, il diciannovenne Giacomo Leopardi scrisse cinque sonetti “in persona di ser Pecora fiorentino beccaio”. Il “Manzo” sgozzato e accoltellato dal beccaio (macellaio) è non altri che l’erudito civitavecchiese Guglielmo Manzi, colpevole agli occhi del giovane poeta di aver battibeccato per una questione letteraria con il suo idolo ed amico Pietro Giordani.
Tale circostanza letteraria e storica forse non è molto attinente alle vicende storiche che interessarono i macellai civitavecchiesi nei secoli scorsi però mi piaceva rievocarla. Poesia e ciccia.
A Civitavecchia i macellai non ebbero mai buona fama. Nei secoli antichi, quelli in cui vigeva lo “Statuto de la terra de Civitavecchia” (1451), i macellai erano tenuti d’occhio e soggetti a pesanti multe in denaro se non rispettavano ciò che stabiliva l’articolo XXXVIII del Libro Quarto:
“nullo macellaro ardisca tenere o vero vendere nel macello le carni morticine o vero corrotte o vero sciattate da li giudei … non vendano una carne per un’altra ma spartitamente vendano … dicendo a quelli le vogliono comperare de che generationi de carni siano de maschio o de femina … Et siano tenuti li decti macellari vendere la libra de la carne de castrato, vitella, porcina … et similmente de la carne de la scrofa, castrabecco, de thoro, de bove, vaccine grosse, caprine, becchine, pecorine, et bufaline … Anche non possano né debiano li decti macellari pesare né vendere ad peso alcuni capi de bestie né in parte né in tutto se non quella poca particella che stà allato alli rognoni si è de peso de due once o meno, né anche le interiora cioè la trippa et le budella, né li piedi né li gamboni fino a le ginocchia … Anche siano tenuti tenere le statere et bilance iuste e eguali e iusti pesi segnati al segno del commune si factamente che la libra sia XII once et anche tengano la meza libra”. E ancora altre dettagliate norme che i macellai erano tenuti a rispettare pena severe multe. Non si nutriva tanta fiducia in loro, nell’articolo successivo, si scriveva che “considerata la malitia de li macellari, statuimo che sia lecito a li macellari et a tutte le altre persone tanto terrazane quanto forastiere potere in qualunque luoco li piacerà per Civitavecchia ciascuno da per se et spartitamente fare et vendere le carni senza pena, purché siano tenuti observare li statuti et ordinamenti del commune facti e da fare de li mali pesi et del modo da tenere in vendere le carni”.
Negli anni successivi fu introdotta la privativa del macello: chi l’otteneva aveva l’esclusiva della macellazione in città e poteva vendere ogni qualità di carne però ai prezzi fissati dal comune. Nessuno senza la sua autorizzazione poteva macellare animali per la vendita a meno che lui rifiutasse di comprare quelli che gli offrivano a giusto prezzo (Calisse, 1898).
Il dottor Gaetano Torraca nel 1761 molto attento alle condizioni igieniche della città, lamentava che erbaioli, pescivendoli e macellai insudiciavano la Prima strada con i loro rifiuti e con il getto dell’acqua per pulire i loro banchi. Suggeriva ai magistrati cittadini di trasferire questi in zone cittadine meno centrali. Anni dopo, sempre lamentando la cittadinanza la mancanza di un macello cittadino, Pietro Manzi (fratello di Guglielmo) nel 1837 informava i suoi lettori che il Comune aveva approvato “i decorosi disegni di un pubblico macello e di una pubblica pescheria”. Carlo Merlo, autore di una guida turistica della città nel 1856, definiva la “carne mediocre, e però si potrebbe far venire dalla Tolfa ove è eccellente. Polli buoni. Caccia abbondante”.
A titolo statistico, riportiamo i dati della “Guida Monaci” del 1905 che registrava cinque macellerie e due negozi di pollame. I macellai erano Nicola Caravani, R. Colucci, Angelo Inesi, Vincenzo Gargiullo e la ditta Possenti Pietro & Figlio. I pollaioli erano Ulisse Caruso e Giuseppe Pizzabiocca. Nelle pagine dell’annuario erano inseriti anche gli allevatori di bestiame della città: Domenico Del Francia, ditta Guglielmi marchese Giulio, Angelo Olivieri, Venanzio Pacchiarotti e Giuseppe Rendina.
Trent’anni dopo, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, “l’Annuario generale d’Italia e dell’Impero italiano” censiva undici macellerie, segno dell’aumento della popolazione e del miglioramento delle condizioni di vita di una parte almeno della popolazione civitavecchiese. I titolari delle attività erano: Am. Caravani, Carlo Colucci, G. Isgrò, Erina Di Pinto, E. Colucci, Antonino Isgrò, Aleo Stenti, Pietro Nieddu, Raff. Randelli, Alfredo Vergati e Alberto Vergati.
Gli allevatori di bestiame erano rimasti cinque ma alcuni nomi erano cambiati: la ditta Guglielmi marchese Giulio, la ditta Angelo Olivieri & Figli; Sante Olivieri, G. Bottega, Giuseppe Turci.
La storia della macelleria civitavecchiese è plurisecolare e stimolante, ricca di particolari che mettono in luce quello che mangiavano i nostri predecessori nei tempi antichi. Lo Statuto del 1451 si conferma indispensabile per conoscere la realtà quotidiana vissuta in città. In questo almanacco ne abbiamo riportato alcuni stralci.
Chiudo augurando buon appetito ai lettori e dedicando queste righe agli amici macellai, Diego e Marco in particolare.
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