SONIA BERTINO

La strage di Paderno Dugnano è solo l'ultimo caso di una scia di sangue. Da Erika e Omar, a Pietro Maso, passando anche per il delitto di Cerveteri nel 1992, sono molti i casi di figli che hanno ucciso i loro genitori. Omicidi che lasciano spesso sotto choc l'intera collettività e per i quali a pagarne poi "il prezzo" sono i sopravvissuti.

Ad analizzare questi crimini efferati è la criminologa Linda Corsaletti, alla quale abbiamo chiesto se c'è un FATTORE COMUNE.

«Ce ne sono tanti. Il primo è l'overkilling, ossia l'utilizzo di una violenza e di una aggressività tali da andare ben oltre la finalità omicidiaria. Viene messa in atto, molto spesso, con armi da punta e taglio, armi da fuoco o oggetti contundenti. Quello che sottende l'atto è sempre il desiderio di distruzione e di annientamento totale della vittima. Un altro punto in comune è dato dalle motivazioni futili o addirittura una apparente assenza delle stesse.

La criminologa Linda Corsaletti
La criminologa Linda Corsaletti
La criminologa Linda Corsaletti

C'è poi l'assenza di rimorso, di empatia o di apparente normalità di questi assassini. In questi giorni, ad esempio, il 17enne di Paderno Dugnano, è stato descritto come un ragazzo d'oro. Sono persone che indossano una maschera sociale che all'interno delle mura domestiche cade. Sembrano tutte famiglie perfette». «Altro comun denominatore di questi omicidi è la premeditazione: sono a lungo immaginati e desiderati. Troppo spesso sentiamo parlare di raptus, termine utilizzato per giustificare, per descrivere un impulso improvviso, violentissimo e incontrollabile che porta la persona ad agire in un modo talmente distruttivo che, però, ci indica come alla base ci sia la propensione alla violenza, una attitudine all'aggressività e al male e che trova nell'omicidio il suo momento culminante. Ma andando a ritroso, c'è sempre qualche manifestazione meno violenta di rabbia che però è stata sottovalutata e dunque non percepita come qualcosa di oscuro da controllare, monitorare».

CI SONO DEI SEGNALI D'ALLARME?

«Certo! All'interno della famiglia si riscontra un isolamento sociale dei ragazzi, una mancanza di dialogo, un contrasto quotidiano con le figure genitoriali. Dei cambi dell'umore, dei comportamenti, a volte, anche autolesionistici. E in alcuni casi anche il declino del rendimento scolastico o una rabbia mai sopita verso i fratelli. Tutti comportamenti che possono far pensare ad una "co-responsabilità" dei genitori: se non c'è attenzione all'interno della famiglia ad alcuni cambiamenti del figlio e non c'è dialogo .... Questi ragazzi vengono sempre giustificati, deresponsabilizzati. I no non vengono detti per paura delle reazioni. Spesso c'è una costante esaltazione dei talenti dei figli. Si tende a nascondere, fuori dalle mura domestiche, il problema. Ma se non si affronta questa può degenerare».

COME CI RIPORTANO LE CRONACHE NAZIONALI, SIA IN QUEST'ULTIMA TRAGEDIA, MA ANCHE AD ESEMPIO IN QUELLA DI ERIKA E OMAR, NONOSTANTE IL CRIMINE COMMESSO NEI CONFRONTI DELLA PROPRIA FAMIGLIA, CI SONO DEI RAPPORTI CON I SUPERSTITI CHE NON SI INTERROMPONO. COME MAI?

«Bisogna immaginare lo choc di chi rimane che porta a cercare di trovare una spiegazione plausibile di quanto accaduto. E l'unico modo per farlo è mantere un legame, al quale va ad aggiungersi quello di sangue che è difficile da dissolvere. Il papà di Erika non ha mai allontanato la figlia. Era l'unico collegamento con la vita precedente. Una situazione che può lasciare perplessi ma le valutazioni sono del tutto personali. Sono delle situazioni che vanno vissute per poterle giudicare. Anche nell'omicidio di Cerveteri il ragazzo non fu abbandonato dai suoi familiari. Questo si verifica spesso. A lungo andare potrebbe anche scemare, come successo in alcuni casi, perché serviva solo a trovare una risposta a un gesto che nessuno si aspettava, perché non sempre vengono colti i piccoli segnali. Si pensa, magari, a problemi di sviluppo, a problemi caratteriali. Ad un qualcosa che col tempo passerà. Ma senza un aiuto concreto può solo peggiorare».

MA È SOLO LA FAMIGLIA CHE PUÒ CAPTARE QUESTI SEGNALI O LA SOCIETÀ PUÒ FARE LA SUA PARTE?

«Generalmente è difficile notare qualcosa all'esterno perché assumono le sembianze della persona irreprensibile. In questi giorni abbiamo sentito parlare di un ragazzo educato, disposto ad aiutare gli altri. Non faceva emergere nulla di quello che invece faceva a casa. E qui va lanciato un appello alla società: deve e può mettere in atto strategie per promuovere l'educazione sulla salute mentale per ridurre lo stigma sociale che gira intorno ad essa». «Tendiamo sempre ad emarginare chi ha dolore o patologie mentali perché c'è ignoranza, non siamo abituati a confrontarci con questo, mentre col male fisico non abbiamo problemi. Il cervello è un organo che spaventa e questa cosa è dovuta a parecchi pregiudizi, come l'assunzione di psicofarmaci: veniamo fatti passare per pazzi. Non c'è cultura al riguardo. Solo tabù. È invece importante parlarne per sensibilizzare al problema, per mettere in campo servizi di supporto per le famiglie, dei punti di ascolto. Dare la possibilità anche alle fasce più deboli di rivolgersi a un professionista della salute. Perché spesso sono anche i costi che frenano le richieste di aiuto». «E poi bisogna guardare con attenzione alla transizione adolescenziale. È delicatissima ed è caratterizzata da un continuo oscillare di un bisogno di creare la propria identità personale e autonomia e dalla dipendenza dalla famiglia. C'è un costante confronto col mondo esterno e i genitori e se durante questa fase qualcosa va storto - il ragazzo non è aiutato - la famiglia può essere percepita come un ostacolo di cui liberarsi il prima possibile e lo strumento per farlo diventa nei casi più estremi l'omicidio. Tutti omicidi con goffi tentativi di depistaggio, dove la realtà che immaginano è quella di poter poi "fare la vita" che avevano pensato e invece nel giro di 24/48 ore le uniche porte che si spalancano per loro sono quelle del carcere».

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