CIVITAVECCHIA – Si è celebrata lunedì 11 novembre, in occasione della Giornata Nazionale delle Cure Palliative, la messa per le cure e in suffragio dei defunti dell'Hospice Carlo Chenis, la struttura di via Braccianese Claudia che offre 10 posti in sede per gli ammalati, mentre una quarantina di assistiti vengono curati a domicilio.

Il personale, composto da circa 50 persone che dal primario, ai dottori, agli infermieri, alle OSS, lavora in modo encomiabile, soprattutto con tanta dedizione e professionalità. La data dell’11 novembre non è casuale, coincidendo con il giorno di San Martino. Si ricorda infatti il gesto del giovane soldato Martino, che offrì metà del suo mantello a un mendicante incontrato sul suo cammino. In quel momento tornò a splendere il sole. A questo si fa risalire l'origine delle cure palliative (dal latino "pallium"= mantello), rivolte a coloro per i quali non esistono più terapie finalizzate alla guarigione. Questo è ciò che offre l'hospice: gesti amorevoli di assistenza e conforto. Non solo a livello sanitario.

In questo contesto si inserisce infatti la missione del cappellano della struttura, don Fabio Casilli. «Fra lo staff di lavoro e la mia funzione di Cappellano - ha spiegato - si è creata un'ottima sinergia, una buona comunione di intenti e una bella fratellanza».

Don Fabio, come descriverebbe il suo "lavoro" quotidiano presso l'hospice oncologico? Quali sono le sue principali responsabilità e come le affronta emotivamente e spiritualmente?

«Il mio non è un "lavoro" ma un servizio che offro alla Chiesa tramite i fratelli ammalati. Quando il vescovo attuale, monsignor Gianrico Ruzza, mi nominò Cappellano dell'Hospice perché mi riteneva la persona più adatta per la mia precedente esperienza con gli ammalati, fui assalito dal dubbio. Altro è assistere un unico malato, parente o conoscente come i due Vescovi, due padri per me (monsignor Carlo Chenis e monsignor Luigi Marrucci ndr) e altro è fare il xappellano in una struttura grande, in cui i pazienti vivono diverse realtà, appartengono a diverse religioni, con grado di fede e mentalità diverse. Ho deciso di entrare nel nuovo contesto in punta di piedi, come è mia abitudine. Ho ascoltato i consigli del mio predecessore, crescendo pian piano ogni giorno. Questa "locanda", come la definisce il Signore, la descriverei come un'oasi per incontrare Dio. La mia principale responsabilità è di dare il massimo di me stesso nel servizio, nell'essere presente accanto al malato ogni giorno. Spiritualmente l'affronto con la preghiera che mi aiuta anche emotivamente».

In che modo riesce a offrire conforto a pazienti che si trovano nell'ultima fase della vita? Quali sono le parole o i gesti che sente più significativi in questi momenti delicati?

«Offro conforto ai pazienti con la preghiera silenziosa, con l'amministrare i Sacramenti e con la vicinanza. A me piace parlare poco, ma cerco di dare importanza ai gesti semplici: una carezza, una stretta di mano, lo stare accanto a loro soprattutto in assenza dei parenti. Qui si trova sollievo e serenità. Qui si misura anche la nostra fede».

Come si rapporta con le famiglie dei pazienti, che spesso vivono anch’esse momenti di grande sofferenza? Esistono dei "percorsi" particolari di ascolto o di sostegno che riserva ai familiari?

«Ci sono due categorie di parenti: famiglie presenti che incontro spesso e famiglie che non vedo mai. Certe famiglie accettano e accolgono volentieri la presenza del aacerdote e famiglie che lo allontanano. In tutte queste realtà familiari io entro in punta di piedi e in silenzio, sempre rispettando le loro scelte. Il percorso che cerco di assicurare a me stesso e ai parenti è impostato sulla serenità, per quanto possibile, e sul raggiungimento della pace interiore. Sono su tutti i giorni, anche solo per un saluto, per un passaggio, per una parola o uno sguardo. La prima parola è umanità».

Ci sono stati episodi o incontri con pazienti che l'hanno toccata profondamente e che hanno segnato il suo percorso personale e spirituale? Come si riflette nella sua missione quotidiana?

«Alcuni incontri hanno toccato il mio percorso personale e spirituale, soprattutto vedendo persone arrabbiate con Dio per la loro situazione e non ancora pronte a lasciare tutto. Ogni singolo fratello incontrato sul mio cammino ha lasciato un segno indelebile. Mi pongo spesso questa domanda: "Se una cosa del genere capitasse a me come reagirei?”. Spero di non aver detto parole vuote e che la mia fede si dimostri salda. Nella mia missione vengo spesso messo con le spalle al muro e con i piedi per terra».

Quali sono le maggiori sfide nel portare conforto spirituale in un contesto così doloroso? Esistono momenti in cui sente di dover trovare, lei stesso, un sostegno emotivo o spirituale per continuare il suo lavoro?

«La sfida più dura è riuscire a dare conforto e speranza nonostante il contesto doloroso. Ogni volta che entro all'Hospice il mio spirito si ricarica e non ho bisogno di altri sostegni emotivi. Questo anche perché ho vissuto in passato l'esperienza di assistere due nostri Vescovi con malattie oncologiche. La loro testimonianza di fede mi ha dato l'opportunità di fortificarmi e mi aiuta a vivere con serenità il mio servizio all'Hospice».

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