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CIVITAVECCHIA – Il tema della violenza sulle donne è tristemente sempre molto attuale e i recenti casi di cronaca tornano a puntare i riflettori su una problematica forse mai veramente affrontata in maniera strutturale.
All’ospedale San Paolo di Civitavecchia da fine 2017 (e già dal 2016 a Bracciano) è attivo lo Sportello antiviolenza “Codice Rosa” gestito dall’associazione Differenza donna «grazie - spiega la responsabile "Codice Rosa" Civitavecchia e Bracciano per Differenza Donna Giulia Ragonese - ad una proficua collaborazione con la Asl Roma 4 che ha intuito l’importanza di un presidio antiviolenza dentro le strutture sanitarie prossime ai Pronto Soccorso. Civitavecchia è un territorio che purtroppo non si distingue rispetto agli altri sul fronte della violenza che subiscono le donne: è ancora tanta come nel resto del nostro Paese».
Avete notato differenze negli anni? «Nel tempo Civitavecchia sta diventando una città sempre più consapevole di quanto sia diffusa la violenza maschile sulle donne: è cresciuto l’interesse delle istituzioni del territorio, degli istituti scolastici, dei giovani e delle giovani che ci invitano a incontrarci. Sei anni e mezzo è tuttavia un tempo troppo breve per rilevare cambiamenti strutturali: la violenza sulle donne emerge, nel modo così evidente che abbiamo imparato a conoscere, da non più di 30 anni. Siamo ancora in una fase di emersione del fenomeno e molta violenza domestica rimane ancora sommersa. Se ne parla di più, i centri antiviolenza sono più conosciuti dalle donne e proprio per questo, soprattutto dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin i numeri stanno crescendo a livello nazionale».
Quante richieste di aiuto avete ricevuto in questi anni? «Dal 2017 ad oggi al “Codice Rosa” di Civitavecchia abbiamo accolto in totale 220 donne con una media di 34 donne per anno. Certamente dal momento dell’apertura fino al 2020 c’è stata una crescita, per cui da 7 donne accolte nell’ultimo trimestre del 2017 siamo poi passate ad accogliere oltre 40 donne nel 2020, numero che da allora è rimasto pressoché stabile: nel 2023 abbiamo accolto 38 donne. Il 40% di loro ha avviato effettivamente un percorso di fuoriuscita dalla violenza, vale a dire che sono donne che continuiamo a sostenere ed il cui progetto ha generalmente un esito di successo. È un dato la cui crescita dipende dalla crescita delle competenze di tutta la rete antiviolenza e dall’abbattimento degli stereotipi sulle donne e nelle relazioni intime».
Si riscontra un'età media o una situazione sociale prevalente rispetto ad altre? «La violenza maschile sulle donne non conosce specificità di età, reddito, professione, paese di origine o alfabetizzazione; viene agita in modo trasversale da uomini provenienti da qualunque situazione sociale o grado di istruzione. Ciò accade perché la violenza sulle donne trae origine dalla cultura dominante, che è quella patriarcale, che vuole le donne relegate agli angoli di ogni ambito sociale, lavorativo, famigliare. Negli ultimi anni si è abbassata l’età media delle donne accolte, si aggira tra i 30 e i 40 anni. Siamo sicuramente tutte più consapevoli e abbiamo più strumenti delle donne di un decennio o un ventennio fa anche per chiedere aiuto, come il numero di emergenza nazionale 1522 della Presidenza del Consiglio dei Ministri che gestiamo come Differenza Donna».
Quale è il quadro più diffuso a Civitavecchia? «Le donne che arrivano al “Codice Rosa” di Civitavecchia sono del tutto assimilabili alle donne che accogliamo negli altri centri antiviolenza. Quello che certamente cambia è che al “Codice Rosa”, essendo un presidio ospedaliero, vengono accolte soprattutto le donne che transitano dai Pronto Soccorso. Sono donne che hanno subito aggressioni così violente da doversi recare in ospedale, perché in pericolo di vita, o in grave stato d’ansia, o con gravi tumefazioni. La presenza del referto ospedaliero con la prognosi assegnata è un fondamentale indizio per comprendere il rischio che le donne corrono di subire nuovamente violenza. Generalmente le donne che accedono al “Codice Rosa” hanno un rischio molto alto di trovarsi nuovamente in pericolo di vita, esse stesse o i loro figli e figlie e come Paese Italia abbiamo assunto l’obbligo di protezione delle donne in uscita dalla violenza con la ratifica della Convenzione di Istanbul firmata nel 2013. Dobbiamo rispondere sempre meglio a questo obbligo e ancora molto c’è da fare».
Come si articola la vostra attività? «Le donne che hanno subito violenza e che fanno accesso al Pronto Soccorso hanno immediatamente la possibilità di chiamarci, garantiamo una reperibilità 24 ore su 24. Dal momento in cui riceviamo la loro chiamata siamo pronte ad accogliere il loro racconto telefonicamente ed a fissare loro un appuntamento. Se la donna è ricoverata c’è la possibilità che possa incontrarci anche in sede di ricovero. Dal momento in cui incontriamo le donne, insieme a loro, diamo loro tutte le informazioni in merito ai loro diritti e opportunità, se scelgono progettiamo insieme un percorso di fuoriuscita dalla violenza, esattamente come avviene nel resto dei centri antiviolenza. Valutiamo il rischio che in quel momento corrono, loro ed i loro figli e figlie, e siamo pronte a sostenerle anche dal punto di vista legale. Siamo in rete con tutte le Case Rifugio della Regione Lazio e d’Italia, per cui se necessario, valutiamo con la donna la possibilità di recarsi in una struttura protetta e sicura. Capita anche che ci chiamino donne che non hanno fatto ancora accesso al Pronto Soccorso, in questo caso le invitiamo a venire e a richiedere un referto che attesti le conseguenze della violenza subita».
Quante donne sono riuscite ad uscire da situazioni difficili sul territorio grazie al vostro lavoro? Le donne escono da situazioni di violenza innanzitutto grazie a loro stesse. Sono loro che trovano il coraggio di chiamarci, di andare all’ospedale, di raccontare la loro storia, sfidando i pregiudizi ed i tabù che tutt’oggi gravano sulla violenza sulle donne, classificandola come “semplice lite famigliare” e creando situazioni di vittimizzazione secondaria per cui l’Italia è stata condannata diverse volte da parte della Corte Europea dei diritti umani. Se è vero che non tutte le donne che accedono al “Codice Rosa” proseguono il percorso, è vero che già una prima chiamata, un solo colloquio può essere efficace: quella donna sa che se ha bisogno può chiederci aiuto, e magari se non è questo il momento giusto per lei, “c’è ancora domani”. La metà delle donne che abbiamo visto a Civitavecchia nel 2023 sono uscite definitivamente da una situazione di violenza, ciò non esclude che questo dato possa aumentare negli anni successivi. Ogni donna ha un tempo diverso per ricostruire la propria vita.
Cosa può spingere una donna a trovare la forza per uscire da situazioni difficili, che magari durano da anni? Le donne subiscono violenza, nel 99% dei casi, all’interno delle loro relazioni intime: da parte del compagno, del marito, dell’ex partner. Questo richiede uno sforzo enorme da parte di una donna per comprendere che la persona che ami, con cui ha creato un progetto di vita, ti fa del male, commette un reato contro di te. E’ del tutto normale sentirsi responsabili della violenza che si subisce, sentirsi in colpa, d’altronde siamo eredi di un sistema che fino a cinquanta anni fa aveva una norma che si chiamava “ius corrigendi”, per la quale la donna andava “corretta”. Nonostante ciò il “Codice Rosa”, come i centri antiviolenza, accolgono donne coraggiose, che vogliono tutelare i loro bambini e le loro bambine e che spesso proprio per questo trovano la forza per fuggire. Fortunatamente anche l’informazione, i media, gli eventi di sensibilizzazione, possono essere importanti facilitatori: la risonanza mediatica del femminicidio di Giulia Cicchettin ed il modo in cui la sorella Elena ne ha parlato hanno sicuramente fatto balzare in avanti le richieste di aiuto.
Ci sono mai stati dei momenti più difficili in questi anni di lavoro su Civitavecchia? I momenti difficili non sono legati al territorio, piuttosto alle resistenze che in generale sono diffuse nella società. Capita che le donne che denunciano la violenza non vengano credute o vengano giudicate in violazione dei principi del nostro ordinamento e quindi non usando tutti gli strumenti che invece la rete antiviolenza ha a propria disposizione per svolgere la due diligence che deve avere in questi casi. Noi lavoriamo affinché una volta per tutte la responsabilità della violenza venga assegnata a chi di fatto la compie, come avviene per un furto o qualsiasi altro tipo di reato. Attraverso la formazione alla rete con cui lavoriamo riduciamo la possibilità che le donne subiscano violenza secondaria istituzionale, che vengano additate come imputate, piuttosto che difese.
Come pensa la vostra associazione, che grazie ad anni e anni di lavoro ha maturato una forte esperienza e professionalità in materia, si possa fare per affrontare in maniera più strutturale il problema della violenza di genere? Bisogna investire molto di più sui programmi di prevenzione della violenza sulle donne e sulla formazione della rete antiviolenza. La violenza sulle donne riguarda davvero tutte e tutti noi e l’unico modo per contrastarla è buttare giù tutti gli stereotipi che rendono le donne discriminate, svalorizzate, oggetto del potere maschile. Abbiamo bisogno di rifondare daccapo le relazioni d’amore, e la narrazione comune sulle relazioni d’amore, decostruire il primato di un amore romantico per cui “si muore per amore”, piuttosto che vivere. Ora sono arrivati 40 milioni di euro per i Cav e le Case Rifugio, dobbiamo aumentare i posti in Casa Rifugio, pagare il lavoro dei Cav in maniera più omogenea nel territorio nazionale e mettere in pratica le tre assi della Convenzione di Istanbul: prevenzione, protezione, persecuzione, con politiche sistemiche cioè con programmazioni di breve, medio e lungo periodo senza mollare mai e senza creare interruzioni o non coperture territoriali.
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