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… La storia di mio fratello finisce qui, magari aggiungendo un breve cenno sulla folla sinceramente commossa che riempì la chiesa e il sagrato di Santa Maria in Ara Coeli il giorno dei suoi funerali, dopo che la sera prima, nella camera ardente in Campidoglio, migliaia di romani si erano messi in fila per rendere omaggio a Tony e alla sua impeccabile camicia nera.
Meriterebbe forse anche una menzione il discorso che Fini tenne al termine della cerimonia funebre, dimostrandosi all'altezza di quella drammatica incombenza, prima della cerimonia di inumazione al Verano, di segno decisamente più militante, dove fui io a dire qualche parola prima di salutare per l'ultima volta Tony, con la bandiera bianca rossa e nera di Roma nord sulla bara e la cerimonia dell'appello al caduto, cara alla tradizione degli Arditi e di solito biasimata dai giornalisti della stampa progressista, che vorrebbero romperti le palle persino sul modo in cui scegli di andartene da questo mondo. Ma in realtà tutto questo appartiene già a un'altra vicenda, che mi riguarda più direttamente, al momento in cui, morto Tony, ho accettato di vivere la sua vita, di realizzare i suoi sogni, di trovare un percorso per fare in modo che la storia continuasse, con risultati alterni e comunque mai del tutto soddisfacenti.
Se invece vogliamo cercare in queste pagine un elemento di continuità, per cosi dire, erga omnes, direttamente riferibile alla sua persona, io credo che dobbiamo fare uno sforzo per ascoltarlo, mentre ancora ci interroga sull'utilità dei suoi sacrifici. Interessa ancora a qualcuno una storia così? Siamo stati capaci di raccontarla? E, soprattutto, cosa siamo disposti a fare perché non rimanga una delle tante storie che la gente rimastica quando rievoca un passato perduto per sempre?
Ormai ho compiuto sessant'anni: il mio corpo è cambiato, in peggio, il mio carattere anche – e già non era il massimo quando ero giovane - anche perché, a volte fatico a riconoscermi nello specchi , scorgendo quest’uomo appesantito da un mutato metabolismo, con i capelli bianchi, infastidito da misteriosi acciacchi di cui un tempo ignoravo persino l'esistenza. Però rimango una persona con un certo senso della concretezza e capisco che se vogliamo rendere omaggio al ventennale della morte di Tony, possiamo farlo solo rispondendo a quella domanda, che in realtà ne contiene molte altre: cosa siamo disposti a fare perché la sua storia continui?
Viviamo una stagione diversa e per certi aspetti simile a quella del 1993: Giorgia Meloni guida un partito che rischia di scoprirsi, alle prossime elezioni politiche, il primo partito italiano. Lei però ha una fortuna: dopo aver visto con i suoi occhi lo sgretolamento delle effimere fortune di Fini, Renzi, Grillo e, tra poco, di Salvini, può fare tesoro di quelle esperienze. Lei sa che un leader senza classe dirigente, senza un partito radicato, senza cultura, senza una linea orizzontale di personalità di standing medio alto che lo affianchi, dura il tempo necessario a logorarsi nella macchina della sovraesposizione mediatica: più o meno tre o quattro anni.
In verità non ha solo questa, ma anche altre fortune: per esempio non ha un'opposizione interna che la aspetta sul bordo del fiume, inoltre dispone, diversamente da quel che i giornaloni sproloquiano spesso, di una potenziale classe dirigente parlamentare ed extraparlamentare di ottimo livello. Penso, in Parlamento, ai due capigruppo, che hanno svolto con dignità il loro ruolo, o ad Adolfo Urso e a Fabio Rampelli, parlamentari di lungo corso, il primo con comprovate competenze in materia di commercio estero. Fuori dal Parlamento, Giorgia può contare su potenziali, significative risorse umane, come il Presidente internazionale della Croce Rossa, Francesco Rocca, le cui competenze sono di livello internazionale, tanto da fame uno tra i pochi italiani in grado di aspirare a incarichi di prestigio presso le Nazioni Unite, o come Alfredo Mantovano, una delle persone più stimate della vecchia An nei ruoli istituzionali che ha rivestito. Non mancano intellettuali di rango vicini al partito come Marcello Veneziani e Pietrangelo Buttafuoco. Giuristi come Peppino Valentino. O personalità provenienti dal mondo imprenditoriale e già sperimentate in politica, come Guido Crosetto. Tralascio un elenco di almeno una dozzina di tecnici di area di primissimo livello. Potrei continuare a lungo, ma non avrebbe senso e non voglio citare magari persone direttamente riferibili al mio gruppo, che pure non mancano.
Perciò le basterà non cadere nella trappola dei cerchietti magici o dell'attrazione fatale verso chi non ti contraddice mai, per non commettere sbagli che altri, in questi anni, spesso anche sotto i suoi occhi, hanno commesso nell'euforia della popolarità. Ma anche questo non sarebbe sufficiente. Dobbiamo ridare un'anima alla nostra storia, dobbiamo ricercare attraverso innovative forme di volontariato, di intervento solidale, di impegno giovanile, generazioni di nuovi, diversi - come si diceva un tempo - "soldati politici", che riconducano il nostro destino in primo piano sulla frontiera dell'impegno ambientale, del riscatto dei popoli oppressi, della lotta senza quartiere alla grande criminalità organizzata, del servizio sociale in difesa dei più deboli, con più forti tensioni e nuovi slanci per restituire alla politica nobiltà e spirito sufficienti a farne una buona ragione per vivere e per morire.
Autodefinirsi "patrioti" è un inizio, ma il patriottismo e i patrioti non nascono nelle segreterie politiche, nelle anticamere dei palazzi, nei convegni a uso e consumo di qualche ripresa televisiva. Al contrario, questi ambienti creano alla fine insicurezze, precariato, invidie, truppe cammellate, questuanti. Le comunità patriottiche si formano a contatto con la realtà sociale, nella lotta politica che si consuma nel mondo reale, quando dei bravi e coraggiosi giovani leader riescono a trasformare quelle battaglie nel racconto avvincente di una grande avventura. Il difficile, in questo terzo millennio, non sarà prendere voti - caso mai il problema consisterà nel tenerseli per più di tre anni - ma conquistare cuori, anime, spiriti liberi, élites degne di questo nome.
Riportare gli italiani migliori alla politica e alla guida del Paese è la vera sfida del secolo, ricostruendo così una politica in grado, ci perdoni il lettore il gioco di parole, anche di migliorare gli italiani, di restituire forza e coraggio alle ragioni della decenza, dell’onore, dell’altruismo, del merito, della competenza, senza le quali nulla di grande può essere costruito nel prossimo futuro.
Ripeteva spesso Rino Formica che, in estrema sintesi la politica fosse, letteralmente, "sangue e merda". Be' mio fratello invece pensava fosse qualcosa di meglio e di più: per lui era infatti "l'arte regia” per eccellenza, ma anche una grande avventura, un luogo di formazione dell’anima, un alternarsi di gesti di coraggio, di responsabilità, di audacia e generosità.
Un dominio delle azioni umane in cui sono certamente richieste anche freddezza, pragmatismo e, a volte, tratti di contenuta ferocia, senza mai perdere di vista quella che Tony definiva l'umanità della politica che deve indurre senza incertezze a prendere sempre e comunque la parte dei più deboli, dei meno fortunati, di quelli che non hanno voce per farsi ascoltare.
Giorgia Meloni queste cose le sa, ha già una grande esperienza. non ha bisogno dei miei consigli e ha chiara consapevolezza che da sola difficilmente potrà vincere una sfida così ambiziosa. Perciò giocherà le sue carte tenendo conto della necessità di non ripetere errori già visti in un recente passato.
Ma anche per lei, come per tutto il nostro mondo, rimane attuale quell'ultima, inquieta domanda che agitava gli ultimi giorni di vita di Tony: cosa saremo disposti a fare - oggi, subito, alla vigilia di una fase così importante come la stagione politica che ci attende nei prossimi anni - perché tutti i sacrifici, i sogni, le speranze di chi ci ha preceduto continuino ad alimentare una storia degna di essere raccontata?
Sapremo rinunciare ai nostri tic, alla promozione di gentarella di pochissimo valore ma "fedele", fingendo di non sapere che le cronache degli ultimi anni segnalano migrazioni periodiche di centinaia di "fedeli" in soccorso dei vari vincitori del momento? Sapremo preferire una persona competente e leale, capace di dire in faccia quando stiamo sbagliando o quando abbiamo torto, ai plauditores che appagano la nostra certezza di avere sempre ragione? Sapremo rassegnarci al fatto che se un vecchio militante è sempre stato una mezza tacca, la sua militanza non offre titoli compensativi di alcun genere perché di mezze tacche non abbiamo davvero nessun bisogno? Sapremo rinunciare ai settarismi e all'ipertrofico egocentrismo che caratterizza la costruzione dei principali personaggi politici da oltre un ventennio? Avremo il coraggio di dimostrare ai nostri alleati che la logica di coalizione per noi trova un limite invalicabile nella decenza e nel rispetto di inviolabili categorie prepolitiche care ai nostri nonni, prime tra tutte il buongusto. l'educazione e il timor di Dio?
Sapremo apprezzare il contributo dei nostri intellettuali, comprendendo che anche quando ci contraddicono o ci bacchettano, non fanno altro che arricchire, con un ulteriore punto di vista, il processo di fondazione delle nostre decisioni?
Sapremo impugnare una solida ramazza e ripulire il nostro mondo, senza esitazioni né misericordia, da gente chiacchierata, soprattutto nel Sud del Paese, noncuranti dei voti di preferenza che si possono perdere in quest'opera di indispensabile igiene personale?
A occhio e croce temo di no: forse non sapremo fare bene tutte queste cose. Ma potremmo almeno tentare e fare a meno di chi non ha nemmeno la predisposizione a tentare.
Al termine di questa fatica - perché, per me, scrivere questo libro è stata una dolorosa fatica dell'anima - spero che questi interrogativi rianimino davvero il ricordo di Tony nel mondo che gli fu caro. Lui del cordoglio e della compassione non sapeva che farsene. Negli ultimi mesi della sua vita mi ripeteva ridendo, ogni qualvolta gente che mai lo aveva amato lo chiamava per informarsi sul decorso della sua malattia, una citazione di Oscar Wilde: "Tutti ti amano quando sei sotto due metri di terra".
Nel ventennale della sua morte, davvero non occorre quel genere di amore, ma solo donne e uomini pronti, senza riserve e calcoli personali, a proiettare nel futuro prossimo la bellissima storia che questo libro ha provato a raccontare.
Il resto, il rimpianto e il dolore della sua assenza, sono ferite che il tempo riesce solo in parte a lenire nei cuori dei tanti che lo hanno amato davvero e che non lo dimenticheranno mai.
* Andrea Augello, “C’era una volta mio fratello”, Associazione Le dodici querce, Centro studi Tony Augello, 2021